Eppure, a nascere questa volta, non è un maschietto quanto una bambina. Una bambina che approda nel mondo in modo anche un poco irruento cadendo e scivolando proprio dalle mani di chi era ad attenderla, una bambina che non poteva che avere il nome di Violeta, come l’illustre bisnonna della madre, come colei che ricamò lo stemma della prima bandiera dell’Indipendenza all’inizio dell’Ottocento.
«Sono venuta al mondo un venerdì di tempesta del 1920, l’anno del flagello. La sera della mia nascita era saltata la corrente, come spesso succedeva durante i temporali, ed erano state accese le candele e i lumi a petrolio, sempre a portata di mano per le situazioni di emergenza. Marìa Gracia, mia madre, sentì le contrazioni, che ormai riconosceva facilmente dopo aver già partorito cinque figli e, rassegnata all’arrivo di un altro maschio, si abbandonò al dolore aiutata dalle due sorelle che, avendola assistita in quel frangente diverse volte, riuscivano a mantenersi lucide.»
E Violeta nasce in un periodo davvero molto particolare perché la sua vita prende campo in quello che è un secolo fatto di sconvolgimenti e cambiamenti. Un secolo che l’accoglie quando l’influenza spagnola, detta semplicemente “la spagnola”, è giunta anche in quel Cile che sino ad allora era stato risparmiato soltanto per una mera questione di “isolamento geografico” e giunge, ancora, a vivere negli anni in cui il fantasma della Grande guerra aleggia con tutte le ferite arrecate, le morti provocate e i fantasmi disseminati. Tuttavia, Violeta cresce serena e in un contesto sociale benestante grazie a quel padre che cerca di non farle mancare alcunché. Ciò almeno sino al sopraggiungere della Grande Depressione che porta la famiglia a perdere tutto e a doversi trasferire in una zona più rifugiata e lontana del Paese con la speranza di poter ricominciare dal principio. Violeta qui conosce anche i suoi primi pretendenti ma non solo. Conosce anche una violenza che mai dovrebbe essere vissuta e provata, conosce l’amarezza della perdita economica e l’auspicare di una nuova prospettiva, il dolore e infine anche l’amore. Un amore profondo e inestimabile che si coniuga con la grande difficoltà dei legami di vita. Ecco allora che Violeta scopre del cambiamento sociale e politico che vede quale protagonista il suo Paese, un luogo che da sempre è indecifrabile e di difficile comprensione ma che in questi anni subisce ancor più le conseguenze di un mutamento inaspettato quanto imprevedibile. Il tutto tra gioie, sofferenza, perdita, lutti, nuove speranze. Il tutto sino a quello che è l’epilogo. Inevitabile. Naturale.
«È arrivata la fine. Sono qui ad aspettarla in compagnia di Etelvina, della mia gatta Frida, dei cani della fattoria che non hanno padroni e che ogni tanto vengono a sdraiarsi ai miei piedi, e dei fantasmi che mi circondano. Torito è il più assiduo, perché questa casa è sua e io sono sua ospite. Non è cambiato, i morti non cambiano […]»
Ma chi è davvero Violeta? A chi appartiene il volto di questa donna che ci ha accompagnato per quasi un secolo in questo ultimo lavoro nato dalla penna di Isabel Allende? Violeta altro non è che Francisca Llona Barros, detta “Panchita”, ovvero la madre stessa della narratrice venuta a mancare tre anni fa proprio all’inizio della pandemia da Covid-19 all’età di 98 anni. La Allende sente il bisogno di scrivere questa storia già dai primi mesi della scomparsa. Sente però al contempo che non è ancora giunto il momento. Si trova in isolamento forzato come tutti a causa della pandemia e il distacco è ancora troppo fresco, non è ancora trascorso abbastanza tempo per poter davvero scrivere di una perdita che così drasticamente resta nell’anima di chi la subisce. Un genitore è un genitore, sempre. La sua perdita non ha eguali. È una colonna portante che si sgretola da un giorno all’altro, un’ala spezzata nel volo del nostro quotidiano vivere. Come rondini, appunto, che dall’oggi al domani non riescono più a migrare perché quell’ala fatica a guarire. Forse non guarirà mai. Poi il tempo è passato ed è giunto il momento di narrare anche di quel “paradosso poetico” ovvero la coincidenza dettata dal fatto che la vita di questa donna ha avuto inizio con una pandemia e con una pandemia si è conclusa.
La parola ha inizio, le pagine si susseguono. La vita viene ricostruita con maestria e semplicità anche per mezzo di quelle lettere ritrovate e viene narrata a Camilo. In un racconto che assume una forma suddivisa in sezioni (dal 1920 al 1940, dal 1940 al 1960, dal 1960 al 1983, dal 1983 al 2020) e che nel narrare di questa esistenza narra anche di quegli eventi che sono la nostra storia rivivendoli uno ad uno.
La Allende dona ai lettori uno scritto che è catarsi, uno scritto che è necessario prima di tutto a se stessa per elaborare la perdita. Ma è anche uno strumento per esorcizzare, eviscerare un dolore e al contempo rivivere. Non è la prima volta che le appartiene in questa ottica ma ancora una volta torna a donarle forza narrativa ed empatica.
Ciò è quel che l’Allende fa in questo suo ultimo lavoro. Scrive di una vita che ha respirato accanto alla madre, scrive di una vita che per mezzo di lei e dei suoi lasciti ha rivissuto e potuto donare anche a noi. Suscita emozioni forti, invita alla riflessione. Ha dedicato alla madre, ha dedicato alla donna, ma ha anche lasciato nella memoria.
«Dopo aver vissuto un secolo, mi sembra che il tempo mi sia scivolato tra le dita. Dove sono finiti questi cento anni? […] Le anime senza peccato fluttuano leggere verso lo spazio siderale e si trasformano in polvere di stelle. Addio, Camilo, Nieves è venuta a prendermi. Il cielo è bellissimo…»

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