Alla vigilia dell’infausta ricorrenza dell’attentato terroristico a maggior impatto emotivo della storia, l’attacco alle Torri Gemelli, ci troviamo di nuovo a guardare attoniti e impotenti a cosa succede in Afghanistan.
Non voglio entrare in considerazioni di tipo politico. Il senso di impotenza davanti a ciò che sta succedendo riguarda solo l’angoscia per un popolo sottomesso che subisce angherie da decenni. Il pensiero va soprattutto alle donne afghane che finalmente negli ultimi dieci anni avevano ricominciato di nuovo a studiare, a lavorare e a non dovere vedere più il mondo dietro la griglia di tessuto del burqa. Finalmente si erano parzialmente riappropriate del miglior periodo storico per loro quello del Regno dell’Afghanistan, negli anni 50 e 60.
C’è solo la sensazione che il lavoro pluriennale, fatto dalle attiviste di tutto il mondo per aiutare le donne afghane a costruirsi un futuro, sia stato mandato in frantumi in una manciata di ore.
La vita è imprevedibile: l’essere umano è più o meno fortunato a seconda della Nazione in cui nasce. Diritti umani basilari, che in alcune zone della Terra vengono dati per scontati, sono una dura conquista, se non addirittura un miraggio.
Nella stessa Italia, le donne continuano giustamente a lottare quotidianamente per la parità di genere e sicuramente c’è ancora tanto da fare, ma quando ci si trova di fronte a situazioni umanitarie come quella attuale in Afghanistan, ci rendiamo conto della fortuna immensa che abbiamo, data dalla semplice appartenenza al mondo occidentale.

Se vivessi in Afghanistan, sarei già stata costretta a lasciare il mio lavoro, a smettere di guidare, a indossare un burqa per coprire integralmente la mia persona, a dover essere accompagnata da un uomo della mia famiglia per uscire di casa, a distruggere i miei libri e ogni documento che attesti la mia istruzione.
Se vivessi in Afghanistan sarei già morta di crepacuore pensando con terrore che mia figlia quattordicenne fosse stata censita come donna nubile e quindi data poi in “sposa” a un militante talebano. Quel termine “sposa” usato solo per giustificare e legittimare la violenza e sottomissione sessuale a cui le giovani donne sono costrette, solo perché non ancora coniugate, controllate e, nel migliore dei casi, protette da un uomo. Sarebbe costretta ad abbandonare gli studi, perché, si sa, la cultura è il peggior nemico di ogni oppressore.
Non si può rimanere indifferenti di fronte a situazioni umanitarie e sociali di questa portata, non si può voltare la testa dall’altra parte o spegnere la tv o smettere di leggere le notizie trincerandosi dietro il detto “occhio non vede cuore non duole”.
Non si può più; non è umanamente accettabile perché, oltre le donne, anche moltissimi civili, ritenuti non allineati con la nuova dittatura, vengono torturati e giustiziati per strada.
Stiamo testimoni increduli di un’altra tristissima pagina della storia.
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